La
lentezza della luce di
Michele Dalai
Cos'hanno in comune Zola Budd che correva a piedi nudi e
perse la gara più importante del mondo per una crisi di pianto,
Richard Norris Williams, il più grande tennista dei suoi tempi,
sopravvissuto al Titanio, che tirava solo all'incrocio delle righe, e
la gloriosa Aurora Desio, la squadra di basket che terminò una
stagione senza vincere nemmeno una volta? A modo loro sono tutti
sconfitti, meravigliosi sconfitti. Poco importa che lo siano
diventati per un eccesso di bravura o per l'assoluta mancanza di
questa, che il loro dramma, sportivo e a volte anche umano, sia
avvenuto durante la finale delle Olimpiadi o nel più marginale dei
palazzetti dello sport. In "La lentezza della luce" le loro
vicende si intrecciano a quelle del narratore, Michele Dalai, che,
come centinaia di migliaia di bambini e adolescenti degli ultimi
cinquant'anni, è rimbalzato da uno sport all'altro, da un campo di
calcio a una palestra di boxe, con tanta abnegazione e poco talento.
E questi grandi sportivi perdenti sono, al tempo stesso, monito e
allegoria ma anche fratelli e sorelle dello sportivo amatoriale,
uniti nel dolore e nella rabbia della sconfitta eppure consapevoli
che proprio lì, e non nella vittoria, sta la possibilità di
riscatto e di apprendere una lezione determinante per la vita.
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